Tra le storie più interessanti che Gianni Rodari ci ha raccontato in tema natalizio, non potevamo certo scordare questo racconto che spiega al meglio il significato della festa:
“La vecchina abitava da anni (duecento? trecento?) sulla montagna più alta del presepe. Il presepe era quello che sta a Roma, presso la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, tra le rovine dei Fori Imperiali ed è uno dei più belli del mondo, con montagne, burroni, castelli, villaggi, palazzi, ponti, ovili, osterie, negozi, e migliaia di finestre aperte e dentro si vede la gente vivere.
Ma la gente vive per lo più nelle strade, come a Napoli: centinaia e centinaia di figurine che vivono, comprano e vendono pesci, prosciutti, fichisecchi, castagne, caciotte.
E scale, scalette, scalinatelle: tutto un labirinto festoso su cui scendono gli angeli a grappoli dal soffitto, e un lungo corteo di mori, cammelli, cavalli accompagna i Re Magi, e bambini accorrono incuriositi, ragazze ballano la tarantella per far onore agli ospiti, si mesce il vino, si drizzano tende ricche come regge.
Sulla collina più alta, nella casa più povera del villaggio, abitava la vecchina, e anche lei, la notte di Natale, si annodò in testa il fazzoletto più bello.
Preparò un fagotello di pomodori seccati al sole da portare in dono, e si incamminò a piccoli vecchi passi giù per un sentiero ripido, rotto ogni tanto da un mazzetto di gradini. Piano, piano, andava più piano di tutti. Ben presto la superò un gruppo di giovani, e in mezzo a loro ce n’era uno che suonava la fisarmonica.
«Coraggio, nonnetta!» la salutarono.
«Non é il coraggio che manca», rispose, fermandosi a guardarli «Andate, andate, belli di mamma vostra.»
Ma quelli erano già arrivati in fondo alla valle, come una allegra valanga. Un vecchio che fumava la pipa sotto il portico di casa la chiamò:
«Ce la farete ancora? E’ lunga la strada.»
«Ce la farò, ce la farò. Sarò l’ultima, ma alla mia età non é vergogna.»
La vecchina sospirò, ma seguitò a camminare. Non aveva tempo da perdere. E giù, e giù per sentieri e scale, e su, e su per scale e sentieri. Doveva passare ancora le montagne prima di giungere alla pianura.
Poi bisognava attraversare la pianura e ricominciare a salire per un bel tratto, dentro e fuori dai paesi aggrappati alla strada.
Ora c’era sempre più gente, per i sentieri, e dalle case ne usciva dell’altra. Donne dai balconi gridavano: «Aspettatemi.»
Dalle finestre aperte la vita delle case si rovesciava fuori con luci, suoni e colori. La vecchina vide una ragazza che toglieva dal baule uno scialle prezioso.
«Ecco,» mormorò con un pochino di invidia «lo scialle della dote. Io non porto che questi pomodori seccati. Com’é triste esser poveri, qualche volta, quando non si possono fare bei regali.»
Passò accanto a una casupola delle più meschine. Fuori dell’uscio una donna lavava dei panni in un mastello.
«Che cosa fate, sposa?» borbottò la vecchina «Il bucato la notte di Natale?»
La donna alzò gli occhi dal suo lavoro. Erano rossi e gonfi.
«Mio marito é malato, bisogna che guadagni io qualcosa.»
«Non sentite che i vostri bambini piangono?»
«Li sento si. Vogliono andare con gli altri alla grotta. Ma io non ho tempo di vestirli, ecco perché piangono.»
«Siete proprio un pulcino nella stoppa, non sapete cavarvela,» borbottò la vecchina.
Entrò in casa, diede un’occhiata al malato e gli cambiò l’acqua nella caraffa, poi vestì i bambini, con gesti ruvidi e precisi, senza cessare di rimproverarli meccanicamente. Quelli non badavano ai rimproveri: sentivano le sue mani buone e svelte, si lasciarono vestire in fretta, si lasciarono strofinare la faccia con un asciugamano bagnato, ma quando furono pronti schizzarono via con uno strido acuto; come rondini.
«Ti fanno perdere tempo, ma mica ti dicono grazie,» borbottò la vecchina riprendendo il cammino. Ora poi cominciava a sentire appetito. Avrebbe chiesto volentieri qualcosa alla pastora che filava, con un gatto in grembo, alle donne che recavano in equilibrio sul capo grandi ceste colme di verdura, di ciambelle fatte in casa, di frutti profumati. Ma era troppo orgogliosa per farlo.
Per fortuna un contadino che zappava, e la vide avanzare, già un poco vacillante, spiccò un arancio da un ramo e glielo offrì.
«Bravo,» gli disse la vecchina «pare che vi abbiano messo qui apposta per questo. Avevo giusto sete.» Disse “sete”, non “fame”, perché non le piaceva far sapere agli altri le sue cose, e non voleva essere compatita.
«Ma vi pare la notte adatta per starvene a zappettare?» domandò poi. Voi che avete le gambe buone…» «Avrò presto finito. Coglierò un cestello di arance e mi avvierò. Volete scommettere che vi raggiungo prima del paese?»
In paese la bottega del fornaio era aperta, la bocca del forno rossa di fuoco e il pane fresco profumava la notte.
La vecchina guardò da un’altra parte. Prigioniera del suo seggiolone, una puppetta grassa, rosea e lacrimosa strillava a più non posso, tuffando una mano rabbiosa nel piatto di spaghetti che le stava davanti.
«E tu che hai?» domandò la vecchina «Non ti piace la pappa? Su, su che é buona.» Ma la bambina non si chetava e non voleva mangiare. Finalmente la vecchina scoprì che le era caduta per terra una bambola di stracci: gliela raccolse e la bambina sorrise. «Su,» disse la vecchina, arrotolando uno spaghetto intorno alla forchetta «mangia. Ah, am. Quant’é buono… E la tua mamma? Le tue sorelle?
Tutte a vedere il corteo dei Magi, scommetto. E te, ti lasciano qui sola come un’orfanella. Mangia con la nonnina, su. Ecco, brava, brava.»
La bambina, mangiando, farfugliava il suo linguaggio di sillabe sperdute, di mugolii ed esclamazioni senza significato: «Baa… beee…. gnioooo… Uhhh!»
La vecchina cominciò anche a parlare a quel modo, e intanto i minuti passavano, e passava la gente, sorridendo. Passò uno zampognaro, seguito da un codazzo di ragazzi. Passò quel contadino di prima, col suo cestello di arance. Solo quando il piatto fu vuoto la vecchina si riscosse, si guardò intorno, si rialzò.
«Piccerella mia, bisogna che me ne vada, altrimenti non arriverò in tempo. Vedi laggiù, quel chiarore? E’ la cometa che sta per spuntare. » «Biaooo… booo» rispose la pupa.
«Stai buona, si? Presto tornerà la tua mamma»
Ora la folla era un fiume variopinto e chiassoso, risuonava di grida, di pifferi, di nacchere e la vecchina era quasi al centro del presepe, e la luce della stella saliva in cielo come un incendio di buon augurio, e per un po’ la vecchina fu presa a braccetto da un gruppo di ragazze che cantavano e camminavano a passo di danza, e questo le fece mancare il respiro. Dovette proprio sedersi un momento a riposare, sulla panca di una osteria campestre, ma non accettò il bicchiere di vino che l’oste le offriva, per paura che le mettesse il capogiro, bevve solo un po’ d’acqua.
La gente passava. Era passata. Appena qualche ritardatario allungava il passo. Ecco, più nessuno.
«Arriverò ultima anche quest’anno» sospirò la vecchina «e di lontano vedrò ben poco si sa. Le mie povere gambe mi fanno male come se me le avessero battute.
Si fece coraggio, a passi sempre più brevi e incerti, e ogni tre passi doveva fermarsi un attimo perché il cuore si calmasse. I rumori e luci della gran festa erano come una nuvola che si allontanava. Le pause di silenzio erano sempre più lunghe e distese. In uno di quei silenzi udì «di nuovo! ancora» il pianto di un bambino. «Povero piccolo,» mormorò la vecchina «in una notte come questa, davvero, non ci dovrebbe essere al mondo un solo bambino che piange. No, no: in tutto il mondo non dovrebbe piangere nessuno. Ma tu dove sei, piccolo povero fantolino? Dove sei, bello di mamma tua?» Il pianto veniva da una capanna posta a pochi metri dalla strada. C’era una siepe, intorno, ma così cadente che la vecchina non ebbe difficoltà ad attraversarla. La capanna era tutta buia, il pianto veniva di là. «Eccomi, eccomi,» sussurrava la vecchina, «eccomi, sono qui. Entrò nella capanna e proprio in quel momento per fortuna, la cometa superò l’ultima montagna, e illuminò tutto il cielo e al chiarore che penetrava dalla porta la vecchina vide il pagliericcio, la giovane donna che vi stava distesa con gli occhi chiusi, come svenuta, e il piccolo tutto nudo che giaceva accanto e piangeva.
«Ma tu hai freddo, ecco che cos’hai» esclamò la vecchina con la sua voce più dolce.
E sempre parlando tra sé la vecchina si muoveva per la capanna, trovava le povere fasce preparate per il neonato, e lo avvolgeva. A un tratto «Grazie» senti dire con un filo di respiro. Si voltò, e vide che la giovane madre era tornata in sé. Era troppo debole per muoversi e per parlare, ma i suoi occhi riconoscenti dicevano tante cose.
«Brava, brava,» disse la vecchina. E intanto accendeva il fuoco; metteva un po’ di acqua a bollire e il fuoco rischiarava la capanna come una piccola, capricciosa cometa che giocava con le ombre. E poi venne l’alba, piano piano grigia, poi bianca e dorata. La madre e il bambino dormivano. La vecchina dormiva su una sedia, col mento sulla mano. E quando si svegliò era tornato il padre e la notte di Natale era passata, e la vecchina non era arrivata fino alla grotta, perché tutti quei bambini le avevano fatto perdere tempo, ma era contenta e serena, anche se non aveva visto i Re Magi, gli angeli lontano lontano; sopra un mare di teste, la grotta.
Così lasciò quei pomodori seccati sul tavolo e si mise sulla via del ritorno, un passo dopo l’altro, nel silenzio del grande presepe addormentato, su su, in cima ai sentieri, ai tetti, alle scale, alle scalinatelle, fino a casa sua; che era la più vicina alle stelle”.